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Perchè andare dall'osteopata? Pensieri e riflessioni da osteopata - aprile 2023
Perchè andare dall'osteopata?
Questa è una domanda che da profano mi chiederei probabilmente anche io. Nella mia piccola esperienza personale i motivi del consulto sono fra i più disparati.
Partendo dai dolori più comuni, quali ad esempio le lombalgie, si passa a problematiche più misconosciute come dolori articolari più generici e saltuari, sino ad arrivare a pazienti che arrivano senza esattamente conoscerne bene il motivo, magari inviati da amici o parenti. A questa varietà di presentazioni occorre poi sommare le credenze e le aspettative personali dei pazienti, che hanno una propria personale idea di cosa fa l'osteopata o di cosa dovrebbe fare. Queste idee sono di solito maturate da racconti di persone che hanno già avuto questo tipo di esperienza oppure da indagini personali perchè no, anche tramite Dottor Google.
Spiegare esattamente quello che faccio come professionista è risultato a volte difficile anche per me; sebbene l'osteopatia abbia tradizioni antiche il suo inquadramento professionale è ad oggi ancora in fase di delineazione. Negli anni, aumentando il numero di persone sul territorio che si rivolgevano a questo tipo di professionista, si è dovuto provvedere al suo inquadramento nella grande famiglia delle terapie sanitarie. Questo Iter, lunghissimo, che ci ha finalmente fornito un profilo professionale (che peraltro non è condiviso da tutti i professionisti) pare sia alle ultime fasi del suo percorso. Gli osteopati saranno sanitari a tutti gli effetti entro speriamo pochi anni.
Questa incertezza professionale ha creato miti e leggende. L'osteopata è stato definito in tutti i modi: mago, sciamano, aggiusta-ossa, ciarlatano, fisioterapista ma non proprio e potrei continuare. Ancora oggi per comodità molti miei pazienti se devono dare un'informazione spiccia dicono di essere dal fisioterapista, per essere capiti prima.
Per provare a rispondere a questa spinosa domanda prenderò la questione un poco alla larga.
Innanzitutto l'osteopata è una figura complementare. Non presenta un campo d'applicazione specifico, ma può essere un aiuto determinante in numerose condizioni patologiche. Quello che io cerco sempre di specificare è che l'osteopata arriva dopo l'inquadramento medico, condizione necessaria per la sicurezza del paziente e condizione facilitante il lavoro del professionista osteopata che si troverà notevolmente avvantaggiato nel suo lavoro.
Come vedo io l'osteopata?
Come un anello di collegamento, come un ponte fra una conoscenza del corpo umano e del dolore troppo spesso settorializzata in materie e discipline e una visione del corpo umano globale e sintetizzata.
A livello medico si viene spesso confusi con la propria patologia. "Ho la lombalgia, ho l'artrite, ho il gomito del tennista" e cosi via dicendo. Ma il nostro sistema non lavora a compartimenti stagni, tutt'altro. La conoscenza settoriale, se fondamentale per l'apprendimento e la precisione, può talvolta diventare fuorviante perchè manca del quadro completo. Ho il gomito del tennista? Bene, andrà curato; ma poi? Come è arrivato in sofferenza questo gomito? Perchè si è infiammato? Come lavora la spalla? E il polso? Che postura tengo sul lavoro o nel tempo libero?
La visione globale è quella che fa la differenza fra un bravo osteopata e uno mediocre.
L'esempio citato è uno su un milione ma è secondo me il nocciolo della questione.
Cosa cura quindi l'osteopata?
L'osteopata cura tutto e non cura niente.
Può aiutare in un gran numero di disturbi, sia scheletrici che viscerali e diventa un'arma potentissima se associato a una cura medica precisa.
Andiamo al sodo; reflusso gastroesafageo: esami medici, cura medica, corretta educazione alimentare e posturale e poi osteopata. Quest'ultimo potrà migliorare il lavoro diaframmatico, la mobilità della zona dorsale e del rachide cervicale, migliorare la postura e permettere di gestire meglio il disturbo.
Lombosciatalgia: risonanza magnetica, valutazione ortopedica, cura medica e poi osteopata. Perchè ho sviluppato un'ernia? Magari la schiena lavora male. L'osteopata può aiutare a inquadrare l'assetto posturale, eventualmente a correggerlo, a mobilizzare aree rigide e a prevenire ricadute e dolori futuri.
Prevenzione è il termine chiave, ovvero l'area sanitaria dove sarà inserito.
In questa società molto inquadrata ed efficientata, dove ogni cosa ha una sua utilità ed un suo campo ben delineato, l'osteopata rallenta il tempo per inquadrare una situazione sotto ogni suo aspetto e provare ad aiutare il paziente risultando appunto un ponte fra la salute e la malattia e un ponte per il potenziamento della salute.
Che cosa è la postura? Pensieri e riflessioni da osteopata - 16 febbraio 2023
Che cosa è la postura?
La postura è un concetto in apparenza molto semplice ma nella sostanza intricato e complesso.
La postura è il risultato visibile finale della nostra interazione con il mondo.
Per mondo si intende qui un concetto molto ampio, intendendo fra le altre cose il luogo dove viviamo, il nostro contesto sociale, geopolitico e culturale, il nostro lavoro, le nostre amicizie, il nostro vissuto, le nostre abitudini e attitudini, il nostro carattere e il nostro stato di salute.
Per ognuna di queste variabili esistono adattamenti posturali, talvolta prevedibili, altre volte no.
Proviamo a fare un piccolo esempio per ogni variabile citata.
Il luogo dove viviamo: le caratteristiche climatiche (alta o bassa pressione, temperatura, condizioni di luce/ombra nel corso dell'anno) influenzano il nostro assetto muscolo-scheletrico in modo più o meno positivo o negativo e si possono inoltre riflettere in alcune sfaccettature del nostro umore; l'umore a sua volta influenza la postura. E' noto ad esempio come persone infelici o turbate abbiano tendenzialmente una postura più chiusa e protettiva verso la loro condizione.
Il contesto sociale, geopolitico e culturale: questi fattori, a seconda di come vengono gestiti, influenzano la nostra psiche causando umori e stati d'animo differenti. Ci ricolleghiamo cosi al ragionamento utilizzato per il luogo. Inoltre le abitudini o le usanze di alcuni gruppi sociali sono determinanti nello sviluppo del bambino e quindi in seguito della postura dell'adulto. Ad esempio l'utilizzo delle scarpe sin dall'infanzia nella nostra società.
Il lavoro: essendo l'attività che generalmente occupa la maggior parte delle nostre ore può provocare adattamenti muscolo-scheletrici patologici, fonte di un gran numero di disturbi.
Amicizie, vissuto, abitudini, attitudine e carattere: tutte queste condizioni agiscono a livello conscio e inconscio sul nostro benessere, influenzando in maniera determinante il nostro rapporto con il mondo e di conseguenza il nostro atteggiamento verso di esso e la nostra postura.
La salute: un esempio fra mille. Un condizione di reflusso gastro-esofageo causerà una tensione dell'area diaframmatica e mediastinica condizionando negativamente la nostra corretta respirazione e lo stato tensionale di alcune catene muscolari influenzando di conseguenza la postura.
Facciamo rientrare inoltre nell'ambito "salute" il nostro sviluppo psico-motorio dall'infanzia all'adulto, le nostre abitudini alimentari e sportive e più in generale la cura della propria persona.
Se vogliamo dare un'altra definizione, a livello strutturale e biomeccanico la postura è l'esito dell'adattamento del nostro corpo a tutte le forze cui è sottoposto, sia interne che esterne.
Cosa può fare dunque l'osteopata?
Può innanzitutto partire da una valutazione biomeccanica, andando ad individuare eventuali aree di sovraccarico o al contrario di ipermobilità sensibili di miglioramento. Questo miglioramento può essere ottenuto tramite alcune tecniche manuali e/o tramite alcune modifiche ad alcuni aspetti della quotidianità. A tal proposito nel profilo professionale dell'osteopata sono state inserite azioni educative di prevenzione.
Riflessione critica sulla mia esperienza nel percorso di formazione del postgraduate in osteopatia pediatrica - maggio 2022
Introduzione
Ho intrapreso il postgraduate pediatrico all'interno del percorso Master a distanza di qualche anno dall'ottenimento del D.O. Devo ammettere che all'inizio l'ambiente pediatrico non rientrava tra i miei programmi per il futuro. Questo principalmente per due motivi. Sapevo che una formazione pediatrica avrebbe aperto per me un nuovo mondo e sapevo che per imparare a destreggiarsi in questo nuovo mondo avrei dovuto rimettermi in gioco e avrei dovuto impegnare tempo ed energie. Inoltre sono sempre stato riluttante all'idea di dovermi in qualche modo sottoporre al giudizio dei genitori o di chiunque si prendesse cura del piccolo paziente. Quest'ultimo aspetto che ho menzionato viene ben descritto da uno studio del 2020 che indagava proprio l'alleanza terapeutica fra genitori e terapisti e fra genitori e bambini nell'ottica di ottenere il miglior outcome terapeutico possibile (Chirico et al, 2020). Risulta evidente dallo studio come, pur in un quadro di ignoranza su molteplici aspetti della gestione pediatrica, i miei timori fossero fondati. In in contesto di cura pediatrica il genitore o caregiver ha un'importanza fondamentale; l'alleanza terapeutica assume quindi sfumature diverse, configurandosi in una triade terapista – pazientino – caregiver. Un altro lavoro recente del 2020 va ed esplorare questo ambito, descrivendo come un'alleanza positiva e forte con il caregiver favorisca e influenzi positivamente lo sviluppo di un'alleanza con il bambino (Malhotra et al, 2020).
In questa riflessione critica esplorerò il mio percorso di crescita di questi mesi di formazione, cercando di trarne sia i punti deboli sia i punti di forza, con l'intenzione di ampliare in futuro il mio lavoro con la presa in carico di piccoli pazienti.
Prime impressioni e aspetti fondamentali
I miei primi approcci al mondo pediatrico sono arrivati proprio grazie a questo percorso di formazione. Nella mia esperienza professionale ho sempre avuto un pubblico adulto, con qualche rara eccezione con ragazzini in adolescenza o pre-adolescenza, tra i 10 e i 14 anni.
Non possedevo quindi una routine valutativa e/o gestionale o esperienze precedenti con le quali poter fare un confronto e onestamente non sapevo nemmeno cosa aspettarmi. Le prime sensazioni ed impressioni durante il tirocinio al CMO sono state abbastanza confuse e per certi versi contradditorie. Ero piacevolmente e positivamente impressionato dall'abilità dei tutor di destreggiarsi fra bimbetti agitati e spesso piangenti e genitori ansiosi, e al tempo stesso mi sentivo come il classico pesce fuor d'acqua. Ho iniziato così il mio percorso da semplice osservatore, con una molteplicità di dubbi evidentemente non risolvibili nel breve periodo. Per fortuna lo sgomento iniziale ha lasciato presto il posto ad un'osservazione più analitica.
Il primo aspetto sul quale mi sono soffermato è quello gestionale. Si notava sin dalle prime battute l'attenzione e le energie dedicate dai nostri tutor per creare il giusto setting. In questo contesto intendo setting in un senso molto ampio, ovvero nella capacità di creare la miglior situazione possibile e quindi la miglior possibilità di riuscire effettivamente a trattare il piccolo paziente. Questo lavoro richiede un'attenzione a innumerevoli aspetti. Per esempio il caregiver dev'essere a proprio agio, condizione fondamentale per far si che anche il pazientino sia nelle migliori possibilità di essere disponibile e rilassato. Occorre poi empatizzare con il piccolo paziente e rispettare i suoi tempi; a tal proposito in una delle prime esperienze che ricordo il tutor, non riuscendo inizialmente a placare il pianto del bimbo, aveva suggerito alla madre di allattarlo; a pancia piena il pianto era cessato e il tutor era riuscito a trattare il bimbo.
In un'ottica di questo tipo l'effettuazione del trattamento diventa quasi un output e passa quasi in secondo piano rispetto alla creazione di un ambiente empatico e adatto ad accogliere le esigenze del genitore e del bambino. Ovviamente non bisogna generalizzare; ci sono situazioni che più di altre necessitano accorgimenti gestionali e inoltre l'iniziale difficoltà tende a dissiparsi una volta che il paziente è stato fidelizzato e torna per i successivi controlli. Cionondimeno l'aspetto gestionale riveste sicuramente un'importanza fondamentale per il successo del percorso terapeutico pediatrico.
Uno studio molto interessante del 2020 ha eseguito un'analisi qualitiva dell'alleanza terapeutica nella terapia riabilitativa pediatrica. In questo studio vengono analizzati proprio i temi da me citati in questa riflessione ed emergono tre aree tematiche fondamentali: l'importanza della fiducia verso il terapista, la trasparenza nella condivisione di informazioni e la negoziazione riguardo gli obiettivi e i compiti del trattamento. Lo studio concludeva poi affermando come fosse compito del terapista trovare un giusto equilibrio fra la sua posizione professionale e le emozioni e i bisogni di genitori e parenti (Crom et al, 2020).
Un altro studio qualitativo riguardante un tema molto delicato, ovvero l'alleanza terapeutica nel cancro pediatrico avanzato, supporta queste indicazioni; nelle conclusioni di questo lavoro si legge come occorra supportare la ricerca di strategie per rinforzare l'alleanza terapeutica fra pediatri, pazienti e famiglia (Kaye et al, 2021).
Il secondo punto che merita analisi e riflessione è quello relativo alle competenze. Uno degli aspetti che contribuisce all'enorme divario che ho riscontrato fra me e i tutor della clinica era sicuramente quello relativo alla preparazione teorica. Nei seminari di studio svolti in questi mesi abbiamo affrontato numerosi argomenti relativi all'ambiente pediatrico; per citarne solo alcuni le tappe di sviluppo motorio, i riflessi neonatali, le plagiocefalie. Questo background teorico mancante rende in parte conto del mio smarrimento durante i primi approcci in clinica. Ritengo quindi che una preparazione e uno studio adeguati siano i pilastri fondamentali su cui appoggiare una pratica pediatrica. Rimanendo in metafora architettonica la volta che i pilastri sostengono sarà costituita dalla pratica clinica, dalla gestione della triade di cui parlavo nell'introduzione e dall'esperienza. Infine cito, ma non per importanza, la multidisciplinarietà. Come con l'adulto, forse ancor più con il bambino, è fondamentale costruirsi attorno una rete di specialisti a cui potersi appoggiare. Il pediatra in primis, ma non solo. Solo cosi il percorso terapeutico potrà essere efficace e sicuro, sia per noi osteopati, sia per i nostri piccoli assistiti. Una review molto recente del 2021 affronta questo argomento parlando di un team multidisciplinare in un centro pediatrico per l'ipertensione polmonare. Nello studio si legge come attraverso la delineazione di compiti e ruoli nella composizione del team i pazienti possono ottenere supporto, risorse e le cure di cui hanno bisogno (Whalen et al, 2021). Una review del 2018 giungeva a conclusioni simili descrivendo il protocollo ERAS (enhanced recovery after surgery) (Rove et al, 2018). Molto interessante inoltre, per citare un ultimo esempio, una review del 2020 sull'approccio multidisciplinare ai disturbi della nutrizione nel paziente pediatrico. Anche in questa review si arriva alla conclusione dell'importanza fondamentale della collaborazione fra professionisti diversi per arrivare a risultati validi nella terapia pediatrica. Nello specifico di questa review risulta fondamentale la collaborazione fra logopedisti, psicologi e genitori o caregiver (Gosa et al, 2020). Interessante notare come anche in questa sede ritorni il concetto di triade terapeutica che non può sussistere senza il coinvolgimento attivo del caregiver.
Esperienze personali e percorso di formazione
Da un certo punto di vista l'inizio della clinica pediatrica è stato come un ritorno alle origini. I primi approcci in clinica durante il percorso per ottenere il diploma ormai qualche anno fa mi avevano dato sensazioni simili. Alla voglia di imparare e di provare si affiancavano il timore di trovare un paziente difficile da gestire, il dubbio di essere efficace durante il trattamento e l'ansia di fare bella figura, che ovviamente mascherava una buona dose di insicurezza.
Qui ci tengo a fare una precisazione. Non mi sento arrivato come osteopata, anzi; credo che nel nostro lavoro si possano sempre imparare cose nuove e sia dunque fondamentale continuare ad aggiornarsi per essere un valido terapista. Ma, assodato questo concetto, ovviamente dopo qualche anno di lavoro nel trattamento dell'adulto ho acquisito un poco d'esperienza che mi permette di lavorare con una maggiore sicurezza e di gestire anche pazienti all'apparenza complessi con logica e sangue freddo. Nella pratica pediatrica invece si apriva un mondo completamente nuovo, dove quell'esperienza faticosamente maturata per l'adulto veniva praticamente azzerata e dove anche il bagaglio teorico non mi veniva più di tanto in aiuto. A questo aggiungiamo una manualità e una sensibilità palpatoria e diagnostica da ristrutturare a misura di bimbo e la ricetta per tornare ad essere un principiante è servita. Questa sensazione che ho descritto, un po' sopita nei ricordi ma così familiare negli anni scolastici mi ha portato a chiedermi che cosa servisse per poter acquisire esperienza come terapista. Cercando nella letteratura ho trovato uno studio recente che nelle sue conclusioni descriveva un'educazione estensiva e lunghi periodi di supervisione come elementi cruciali per diventare efficaci e sicuri (Frygner-Holm et al, 2021). Uno studio del 2018 che coinvolgeva dei terapisti in un centro di cura per persone con osteoartriti giungeva a conclusioni simili (Lawford et al, 2018). In ambito osteopatico ho trovato interessante una review del 2020 che affermava come esperienze di apprendimento strutturate permettano agli studenti di sviluppare un'identità professionale empatetica (Chrisman-Khawam et al, 2020).
Rielaborando mentalmente questi aspetti oggi posso affermare che con ogni probabilità fosse proprio questo il motivo per cui ero restio ad affarciarmi al mondo pediatrico; non ero pronto a rimettermi in gioco e ad uscire dalla mia zona di confort cosi faticosamente conquistata.
Venendo ora a considerazioni più pratiche uno degli aspetti su cui ho dovuto maggiormente lavorare è stata lo sviluppo di una manualità adatta a gestire il bambino. Oltre ad avere un'esperienza molto debole nel campo pediatrico non possedevo neppure un'esperienza pratica nella gestione di un bambino, specialmente quando molto piccolo. Come potevo valutare e trattare un bimbo e interagire con altri professionisti e con gli stessi genitori se non riuscivo nemmeno a tenerlo in braccio correttamente e in maniera disinvolta?
Il tirocinio svolto al CMO mi ha permesso di recuperare le mie mancanze in questo ambito. Prima ancora di dedicarmi alla valutazione o al trattamento osteopatico per me è stato utilissimo avere l'oppurtunità di interagire con questi bimbetti cosi piccoli, anche solo per sollevarli dal lettino e tenerli in braccio. Questa progressione cosi graduale mi ha portato nell'ultima clinica, sebbene con l'aiuto del nostro tutor, a gestire la visita di una bimbetta di pochi mesi con una discreta sicurezza. Devo dire che la soddisfazione è stata enorme.
Applicazioni del trattamento in campo pediatrico e criticità personali
Quando durante il percorso di studi, una volta vinte le prime resistenze, ho iniziato ad interessarmi seriamente a questo ambito, mi sono domandato se il trattamento osteopatico del bambino fosse cosi diverso da quello dell'adulto. E' stato interessante ricercare nella letteratura quali potessero essere le applicazioni di un trattamento in campo pediatrico.
Uno studio del 2020 condotto su 537 pazienti pediatrici in una clinica osteopatica ha mostrato risultati contrastanti. I dati ottenuti infatti raramente trovavano riscontro in lavori precedenti, e gli autori suggerivano quindi di utilizzare i dati del loro studio per capire meglio il ruolo del trattamento osteopatico come approccio medico complementare (Kaiser et al, 2020).
Una review sistematica del 2019 analizzava il trattamento manule in ambito pediatrico. La review prese in considerazione 50 studi indaganti l'efficacia del trattamento manuale per un'ampia varietà di condizioni pediatriche. Da questi studi emergevano tre condizioni che mostravano risultati moderatamente positivi (dolore lombare, lussazione del gomito e neonati prematuri; due condizioni invece (scoliosi e torcicollo) portavano a risultati inconcludenti. Si concludeva poi affermando che occorrevano maggiori studi (Prevost et al, 2019). Un' altra review del 2018 analizzava l'utilità della terapia manuale per bambini eccessivamente stressati e/o che piangevano troppo. Diciannove studi furono selezionati per una review completa; da questi studi emergevano piccoli risultati promettenti ma, sebbene i genitori fossero soddisfatti, rimaneva poco chiaro il meccanismo d'azione di questi trattamenti (Carnes et al, 2018).
Purtroppo quando si tratta di analizzare la letteratura in campo osteopatico non sempre le EBM ci vengono in supporto. Tradurre un successo clinico in uno studio che soddisfi i rigorosi criteri scientifici della letteratura non è sempre impresa facile, e la pandemia che ci ha spiacevolmente accompagnato in questi 2 anni non ha sicuramente reso vita facile ai ricercatori. In ogni caso i riscontri che appaiono in letteratura sono spesso promettenti e hanno un potenziale enorme nell'assistenza del benessere prima del neonato e poi del bambino.
Mi vorrei ora soffermare su due condizioni rientranti nelle possibili indicazioni per un trattamento osteopatico che hanno catturato la mia attenzione per la loro potenziale criticità : le plagiocefalie (mi riferiro' in questa riflessione a quelle posizionali) e il trattamento del neonato pretermine.
La plagiocefalia posizionale è una deformazione abbastanza comune nei bambini che prevede un appiattimento e un'asimmetria nella forma della testa. E' spesso associata ad un tempo eccessivo trascorso dal bimbo in posizione supina.
Un trial del 2021 ha trovato un buon riscontro nell'approccio di questa condizione con la terapia manuale (Pastor-Pons et al, 2021).
Per neonati pretermine invece si intendono quei bambini che, per diverse motivazioni cliniche, nascono prima della prevista settimana di gestazione. Ovviamente, a seconda di quanto il neonato sia prematuro, questa condizione comporta una cura particolare che a volte prevede un ricovero ospedaliero prolungato.
Una review del 2017 ha mostrato una riduzione della durata dei ricoveri (e quindi dei costi) di questi piccoli pazienti quando venivano sottoposti a trattamento osteopatico (Lanaro et al, 2017) e un lavoro più recente del 2020 ha mostrato effetti benefici su parametri vitali quali battito cardiaco e saturazione di ossigeno (Manzotti et al, 2020).
Ho avuto modo di riflettere sul perchè queste due condizioni mi fossero rimaste maggiormente impresse e credo che il motivo risieda nella mia percezione di serietà della condizione. L'idea di prendere in carico dei neonati con condizioni complesse mi causava disagio, e credo che questo disagio dipendesse dalla mia impreparazione teorica e dalla mia conoscenza superflua della materia. Non posso dire che oggi tratterei queste due condizioni con disinvoltura ed efficacia, ma la formazione ottenuta in questi mesi di lezioni e tirocinio mi permetterebbe di affacciarmi a queste problematiche con una consapevolezza del tutto nuova.
Conclusioni
Questo postgraduate di formazione è stato per me importante sotto diversi punti di vista. Cinque anni fa all'ottenimento del D.O. arrivai molto stanco. Sei anni di formazione continua da dover integrare con il lavoro mi avevano parecchio provato. Cosi nei successivi anni, pur essendo riuscito a mettere a buon frutto lavorativamente parlando la mia preparazione osteopatica, ho smesso di aggiornarmi se non con qualche breve corso da weekend. Una piccola svolta era già arrivata lo scorso anno, con il PG Pain; purtroppo però la pandemia aveva costretto quasi tutti i corsi online e la soddisfazione ottenuta dal PG era passata abbastanza in sordina. Ci è voluta una buona dose di riflessione per capire quale fosse la differenza fra l'anno scorso e questo e la risposta è stata lo scambio formativo con i colleghi. L'osteopatia è una materia viva, che non prevede solo preparazione teorica e didattica, ma anche e soprattutto scambio, integrazione ed esperienza. Affrontare quasi un intero anno al fianco di colleghi preparati e motivati, ma provenienti da situazioni didattiche e lavorative differenti mi ha permesso di aprire la mente a prospettive nuove e diverse. Approccio al paziente, modalità di svolgimento dell'anamnesi, approccio palpatorio e visione clinica integrata sono solo alcuni degli aspetti su cui ho potuto confrontarmi con insegnanti, tutor e colleghi. Da questo punto di vista il processo formativo di apprendimento è incompleto quando svolto in modalità a distanza o in privato. Migliorare come professionista significa migliorare come persona e significa riconoscere nelle diversità del singolo le peculiarità formative e lavorative che ci permettono di ampliare sempre più la nostra preparazione integrata.
Un ultima nota della mia riflessione riguarda il concetto di multidisciplinarietà. Come descritto nei paragrafi precedenti una rete professionale di specialisti con cui poter interagire e scambiare informazioni è fondamentale per un'ottimale presa in carico del paziente, ancor più se parliamo di pazienti pediatrici. Mi permetto di fare a tal proposito una constatazione personale sul modo in cui il mondo osteopatico viene percepito dalla classe medica. Nonostante l'osteopatia arrivi da lunghissima tradizione per molti è una disciplina relativamente nuova. Alcuni professionisti sanitari non riconoscono ancora il ruolo dell'osteopatia nella cura della persona e, nella migliore delle ipotesi, non se ne interessano. La mia realtà lavorativa in particolare, essendo localizzata in un piccolo comune, è carente da questo punto di vista. Diventa quindi a volte difficile stabilire una rete professionale di collaborazione. Mi auspico che, alla luce del ricoscimento sanitario della professione, questo aspetto possa cambiare in meglio, migliorando cosi le condizioni di lavoro per noi professionisti e garantendo un miglior servizio ai nostri pazienti.
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I fattori contestuali nella gestione del dolore. Analisi critica della letteratura, e riflessione sulla rilevanza di questi fattori nella propria pratica osteopatica
La concezione del dolore ha subito notevoli trasformazioni negli ultimi decenni e per certi versi la sua valutazione rimane enigmatica. Sebbene clinici e ricercatori debbano affidarsi a delle osservazioni per poterlo valutare, l'esperienza personale del dolore è fondamentalmente inosservabile. Sorge quindi la questione di come la soggettività del dolore possa essere integrata con una sua valutazione più oggettiva (Wideman T. et al. 2019).
Innanzitutto occorre quindi capire quali sono i fattori che possono influenzare la percezione dell'esperienza dolorifica.
Una review del 2016 analizza il ruolo dei processi psicosociali nello sviluppo e nel mantenimento del dolore cronico; vengono considerate variabili psicosociali “generali”, quali ad esempio affetti negativi, traumi infantili e supporto sociale, e variabili psicosociali “specifiche per il dolore”, ovvero la catastrofizzazione correlata al dolore, l'autoefficacia nella gestione del dolore e le strategie di coping (Edward R. et al. 2016). Si va a delineare un quadro particolarmente complesso e multifattoriale che prevede una modulazione del dolore estremamente soggettiva e un intervento che dovrà essere il più possibile calibrato sul singolo paziente.
Nelle variabili psicosociali generali assume grande importanza la storia pregressa del paziente. La severità e lo sviluppo del dolore cronico sono influenzati da esperienze che avvengono in età di sviluppo. Persone che hanno subito traumi emozionali (ad esempio la morte di un proprio caro) o fisici (ad esempio una lunga ospedalizzazione) in gioventù sono esposte ad un rischio più alto di sviluppare dolore cronico in età adulta; infatti un forte stress cosi precoce può alterare la funzione dell'asse ipotalamo – ipofisi – surrene modificando le risposte allo stress. Soggetti che hanno avuto esperienze personali di violenza o abuso andranno incontro al rischio di sviluppare dolore cronico a volte anche indipendentemente dall'età in cui si verifica l'evento traumatico e indipendentemente dal fatto che si sia verificato tra le mura di casa oppure no (Mills et al. 2019).
Per quanto riguarda invece le variabili psicosociali specifiche per il dolore la catastrofizzazione correlata al dolore merita sicuramente un approfondimento. Negli ultimi 30 anni questo concetto è stato investigato in molti studi sperimentali e clinici legati al dolore e alla disabilità, in parte come conseguenza dello sviluppo del modello biopsicosociale. La catastrofizzazione nella letteratura scientifica è generalmente vista come un processo cognitivo negativo; in risposta a stress e ansia alcuni individui si focalizzano sugli aspetti negativi della situazione aspettandosi gli outcome peggiori. Allo stesso modo processi cognitivi simili sono stati identificati in risposta a condizioni di dolore; da qui il termine catastrofizzazione del dolore che viene concepita come un'amplicazione mentale dell'esperienza dolorifica (Petrini et al. 2020).
Basterebbero queste due caratteristiche appena descritte a farci capire come l'inquadramento del paziente in un modello biopsicosociale sia una sfida impegnativa. La soggettività di alcune reazioni in risposta a eventi stressogeni e la delicatezza di alcuni argomenti pongono il terapista in una posizione cruciale con dei risvolti a mio avviso sia positivi sia negativi. Da un lato permettono di dare una spiegazione ad alcuni pattern di dolore cronico altrimenti difficili da inquadrare, dall'altro complicano notevolmente l'approccio terapeutico.
Le altre variabili psicosociali dolore specifiche citate sopra, ovvero l'autoefficacia nella gestione del dolore e le strategie di coping, contribuiscono a complicare ulteriormente il quadro. Queste due variabili sono intimamente legate fra loro. Infatti, avere delle strategie di coping efficaci permette di avere una migliore autonomia nel management della propria condizione dolorifica. Una review del 2019 sostiene questa tesi; dall'analisi di 32 articoli si deduce che la gestione del dolore cronico è un processo nel quale diverse attitudini e credenze possono modificare alcuni aspetti della vita e delle attività quotidiane. Le azioni che queste persone mettono in campo può portare ad outcome positivi o negativi nel self-management del dolore cronico (Ho 2019).
Rimangono altri due aspetti che ritengo variabili imprescindibili nella valutazione dei fattori contestuali nella gestione del dolore.
Il primo riguarda le credenze e le aspettative del paziente. A tal proposito un lavoro del 2017 fa notare che alcuni autori distinguono diversi tipi di aspettative, dividendole in ideali, normative, previste e non formate. Le aspettative ideali sono visioni, aspirazioni, speranze e desideri relativi a come il paziente percepisce il potenziale del lavoro terapeutico. Le aspettative normative sono aspettative riguardo a ciò che dovrebbe accadere, e sono basate principalmente su giudizi o opinioni di altri clienti su ciò che si dovrebbe ottenere dal servizio di cura. Le aspettative previste sono anch'esse credenze riguardo a ciò che dovrebbe accadere e sono il risultato di esperienze personali o riportate e dell'informazione carpita da altre fonti quali per esempio i mass media. I risultati di questa review mostrano implicazioni cliniche interessanti; capire le aspettative e i bisogni del paziente è essenziale nel prendere decisioni condivise e ovviamente decisioni condivise permetteranno un miglior outcome. Inoltre differenziare i vari tipi di aspettativa può essere importante nel caso i pazienti debbano accettare una possibile convivenza con il loro dolore (Geurts et al. 2017).
Il secondo aspetto a cui mi riferisco riguarda la relazione operatore-paziente. Recenti studi quantitativi hanno mostrato che questa variabile può influenzare gli effetti del trattamento in positivo o in negativo (O'Keeffe 2016). Esistono diversi fattori correlati con una buona alleanza terapeutica; cito tra i principali i fattori di comunicazione (stili di interazione, fattori verbali e non verbali), la collaborazione, il legame affettivo, la fiducia e l'empatia. La presenza di questi fattori favorisce una buona alleanza terapeutica (Pinto et al. 2012). Conclusioni simili si possono trovare anche in uno studio più recente del 2018 che indaga la relazione fra paziente e fisioterapista (Miciak et al. 2018).
Alla luce di tutte le informazioni esposte sinora il mio pensiero è perfettamente in linea con le conclusioni tratte da una review del 2018 che valutava il contributo della sfera psicosociale nel dolore cronico: “è importante capire che i fattori psicologici e sociali non sono solamente una reazione al dolore persistente, piuttosto essi formano una complessa interazione di processi biopsicosociali che caratterizzano il dolore cronico” (Meints et al. 2018).
Il terapista dovrà tenere in considerazione tutti questi parametri nella quotidianità del suo lavoro, e soprattutto nella presa in carico di soggetti che soffrono di dolore cronico e persistente.
Tramite un primo incontro e un'anamnesi accurata il terapista dovrà in prima battuta escludere forme cliniche urgenti o red flag per avere la possibilià di indirizzare il paziente all'esecuzione di eventuali accertamenti. In un secondo momento, in caso di dolore cronico, dovrà inquadare correttamente il contesto biopsicosociale del paziente cosi da poter impostare un programma terapeutico valido. Per raggiungere tale scopo il terapista dovrà guadagnare la fiducia del soggetto, magari, laddove ce ne fosse la possibilità, spiegando che la sua condizione può essere dovuta non solo a parametri puramente biologici o meccanici. Ecco che in questa sede ritorna l'importanza della relazione paziente-terapista. La fiducia permetterà al terapista di porre domande più personali senza urtare la sensibilità del paziente e dando cosi spazio ad un rapporto costruttivo verso la ricerca di soluzioni o strategie che esulino dalla singola seduta di trattamento passivo sul lettino. Per portare qualche esempio concreto posso citare: un miglioramento della dieta, un supporto psicologico, un programma di attività fisica adattata, l'adozione di accorgimenti quotidiani posturali o la modifica nella programmazione di alcune attività quotidiane. Da qui emerge l'importanza dell'interdisciplinarietà; se per l'adozione di alcuni accorgimenti è sufficiente la buonà volontà del paziente, per determinate modifiche occorre interfacciarsi con altri professionisti quali ad esempio il nutrizionista, il personal trainer o lo psicologo. Un self-management in queste aree delicate potrebbe condurre ad effetti negativi e ad un peggioramento nella qualità di vita del paziente. Il mio pensiero trova supporto in un lavoro del 2016 dove si legge che la gestione del dolore cronico dovrebbe essere olistica e, dove possibile, basata sulle evidenze scientifiche e incorporare approcci farmacologici e non farmacologici che includano la psicologia, il self-management, la fisioterapia, la stimolazione del sistema nervoso periferico e le terapie complementari (Mills et al. 2016). A conclusioni analoghe sulla gestione multidisciplinare della cronicità giunge una review di Kusnanto (Kusnanto et al. 2018).
Analizzando la letteratura si può capire come l'argomento “fattori contestuali nella gestione del dolore” offra ampio spazio per ulteriori studi e ricerche. L'approccio centrato sul paziente invece che sulla patologia mette alla luce problemi organizzativi considerevoli; la macchina sanitaria è impostata verso la cura e la risoluzione del sintomo, del dolore o del distubo organico; questo fa si che abbia talvolta risultati straordinari mentre altre volte diventa per il paziente un circolo vizioso che genera frustazioni, spese e insoddisfazioni. Guardacaso il fallimento terapeutico accade spesso proprio sulla cronicità (Dydyk et al. 2020) e se prendiamo attentamente in considerazione gli aspetti descritti sopra è facile capirne il motivo. La medicina centrata sulla patologia esclude i fattori contestuali che invece risultano determinanti per affrontare e gestire un dolore cronico.
In questo senso, anche alla luce del suo ingresso tra le figure sanitarie nel campo della prevenzione, l'osteopata può ricoprire un ruolo fondamentale di connessione tra la medicina e il paziente portando in una mano una base di nozioni sanitarie, mediche, anatomiche e fisiologiche e nell'altra la consapevolezza che per la cura del paziente occorre un'indagine che tenga in considerazione l'aspetto psicosociale e i fattori contestuali.
Bibliografia
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Comprensione del dolore, in particolare del dolore cronico, come esperienza multisensoriale e multidimensionale e utilità del trattamento osteopatico nella sua gestione - novembre 2020
Concetto di dolore oggi
Il concetto di dolore si è evoluto nel corso degli anni.
Fino agli anni Sessanta esso veniva considerato un'inevitabile risposta sensoriale ad un danno tissutale, poco spazio veniva dato alla sua dimensione affettiva e non venivano per nulla considerati come fattori di possibile influenza le differenze genetiche, le esperienze passate, l'ansia e le aspettative (JD Loeser et Al, 1999).
Oggi invece si sa che il dolore non è più strettamente legato alla nocicezione, bensì è il risultato di un'integrazione a livello del SNC di componenti nocicettive, emotivo-affettive e sociali (Changbo Lu et Al, 2016). L'esperienza che noi chiamiamo dolore è il risultato di un'attivazione coordinata di molteplici aree cerebrali che vengono comunemente descritte come “matrice” del dolore (Luis Garcia-Larrea et al, 2018).
Anche Fenton e i suoi colleghi parlano di “pain neuromatrix” nella loro review. I segnali dolorifici arrivano al talamo e alle strutture encefaliche dove una costante interconnessione e comunicazione tra diversi network cerebrali conduce in ultimo ad una percezione cosciente del dolore (Fenton et Al., 2015).
La nocicezione risulta dunque solo il punto di partenza. Lo stimolo nocicettivo prima di arrivare alla percezione cosciente subisce un'integrazione da parte di aree corticali e sottocorticali (Helene Bastuji et Al., 2016). Per esempio Bastuji et Al. Hanno dimostrato tramite elettroencefalogramma intracraniale che alcune aree cerebrali vengono attivate con un ritardo rispetto allo stimolo nocicettivo e che la loro attività permane anche dopo che la percezione cosciente del dolore è avvenuta.
In parallelo a queste conoscenze dobbiamo inoltre considerare il fenomeno della sensibilizzazione centrale. Recenti studi hanno infatti dimostrato che il dolore, quando diventa cronico, viene mantenuto da un fenomeno di sensibilizzazione centrale, ovvero da un processo di plasticità sinaptica e di incrementata responsività neuronale nelle vie centrali del dolore che si può instaurare a seguito di eventi dolorosi (Ru-Rong Ji et Al., 2018).
Due fenomeni convergono a questo punto: un dolore che tramite un processo di sensibilizzazione tende a cronicizzarsi e una memoria cerebrale che tramite complesse interazioni fra diverse aree corticali e sotto-corticali tende a modulare e talvolta a conservare il dolore. Ritorna a questo proposito il concetto di pain matrix di cui si è parlato in precedenza (Luis Garcia-Larrea et al, 2018 – Luis Garcia-Larrea et Al, 2013).
Una review di Yang e Chang del 2019 ha analizzato che cosa si conosce fino ad ora relativamente a questi aspetti. Sono numerose le strutture cerebrali che si è scoperto essere correlate con la percezione del dolore: la corteccia somatosensoriale primaria, la corteccia somatosensoriale secondaria, la corteccia anteriore cingolata, la corteccia prefrontale, la corteccia insulare, l'amigdala, il talamo, il cervelletto e il grigio periacqueduttale. Inoltre il nucleo adiacente al setto, l'area tegmentale ventrale e le strutture comprese nel circuito mesolimbico sono coinvolte nel dolore cronico. La regione prefrontale e il sistema limbico sono invece correlati con gli aspetti affettivi del dolore e regolano le risposte emozionali e motivazionali. Queste regioni del cervello non si attivano separatamente, bensì sono funzionalmente connesse e contribuiscono alla processazione del dolore (Yang et Al., 2019).
Difficoltà nella valutazione del dolore e empatia
E' chiaro quindi come la valutazione e il trattamento del dolore, e in special modo del dolore cronico, non possano prescindere dagli aspetti esposti sinora.
Una volta assodata la multifattorialità del dolore occorre dunque stabilire come possa essere valutato.
Esistono diverse modalità di misura del dolore, dalle più semplici basate su valori numerici, ad esempio la scala NRS, alle più complesse come ad esempio il questionario MPQ che tiene anche conto delle componenti affettive (Gillian A Hawker et Al, 2011).
Le scale ed i questionari valutativi forniscono al terapista un valido aiuto per indirizzarlo verso una comprensione più efficace del quadro clinico e del quadro di salute generale del paziente. A mio avviso però nessuna scala valutativa può essere completamente esaustiva. In questo senso saranno la giusta dose di empatia e la capacità del terapista di entrare in sintonia con i bisogni del paziente che potranno fare la differenza verso un corretto inquadramento del problema e di conseguenza verso un trattamento più efficace. Il mio punto di vista sembra essere supportato da un lavoro di Elisabeth A. Sternke che, con i suoi colleghi, ha condotto uno studio sulla prospettiva di alcuni pazienti con dolore cronico e depressione riguardo l'empatia dei terapisti. Da questi pazienti si evinceva che l'empatia li aiutava a sentirsi meglio, a sentirsi presi sul serio; inoltre un rapporto empatico migliorava le relazioni con i pazienti e li rendeva più fiduciosi (Elisabeth A Sternke et Al., 2016).
Risultati simili si evincono dallo studio di Sarah Walsh che in uno studio molto recente del novembre 2019 recrutò 140 pazienti per esaminare il rapporto empatico fra terapista e paziente. Nelle conclusioni di questo studio si legge che il rapporto empatico gioca un ruolo molto importante nell'aderenza al trattamento da parte del paziente e contribuisce ad una relazione positiva e terapeutica tra terapista e paziente (Sarah Walsh et Al., 2019).
Ruolo dell'osteopata e dell'osteopatia
In un quadro così variegato e multifattoriale qual'è dunque il ruolo dell'osteopata professionista?
Secondo il mio punto di vista il bravo osteopata dovrà innanzitutto essere in grado di riconoscere eventuali problemi che esulino dalle sue competenze e che necessitino di un'inquadramento di tipo medico-specialistico. In secondo luogo dovrà capire la sua posizione all'interno di un potenziale percorso terapeutico per decidere se agire da solo o se consigliare al paziente un approccio multidiscipinare, eventualmente indicando al paziente quali potrebbero essere altre figure importanti a cui rivolgersi. Infine dovrà stabilire insieme al paziente degli obiettivi realistici di miglioramento.
Per poter intraprendere questo percorso il professionista dovrà essere in grado di discernere la componente più meccanica e nocicettiva del dolore da un'eventuale componente neuropatica e, ancora più difficile, da una possibile componente più soggettiva legata alle componenti affettivo-sociali e di sensibilizzazione centrale.
Brett R Stacey ci ricorda che, a differenza del dolore nocicettivo o infiammatorio, il dolore neuropatico si associa con una lesione primaria o con una disfunzione del sistema nervoso (Stacey, 2005).
Secondo Cohen il dolore neuropatico si distingue da quello non neuropatico per due fattori principali: la mancanza di una conversione dello stimolo nocicettivo in impulso elettrico e la prognosi più infausta. Infatti il danno neuropatico porta più facilmente ad un dolore cronico (Cohen et Al., 2014). Gilron e i suoi colleghi, in una review dedicata proprio al dolore neuropatico, evidenziano come la diagnosi di dolore neuropatico si basi primariamente sulla storia e sull'esame fisico del paziente, anche se sono spesso utili altre indagini speciali (Gilron et Al., 2015). Ciò che lega il dolore alla sfera emotiva e affettiva e alla pain matrix è ovviamente di più difficile valutazione e interpretazione. Come riportato prima dal lavoro di Hawker (Gillian A Hawker et Al, 2011) esistono dei test che possono aiutare il terapista in questo compito e poi interviene la bravura del terapista.
Tenendo bene a mente questo quadro occorre adesso capire se il trattamento osteopatico può essere utile nella gestione del paziente che si presenta con un dolore cronico e con una probabile sensibilizzazione centrale. La risposta è sicuramente si. Una review recentissima e molto esaustiva pubblicata da Licciardone e dai suoi colleghi nel luglio del 2020 spiega come gli osteopati negli Stati Uniti d'America abbiano una posizione unica nella gestione del dolore cronico poiché la loro filosofia abbraccia il modello biopsicosociale e poichè sono addestrati nell'utilizzo del trattamento manipolativo osteopatico a supporto e complemento delle tradizionali cure mediche (Licciardone, 2020).
Anche una review di Hylands-White del 2016 sottolinea l'importanza del contesto psicosociale nella gestione del dolore a lungo termine (Hylands-White et Al., 2016)
Limiti e vantaggi della pratica osteopatica
La panoromica che ho esposto fino ad ora dipinge uno scenario estremamente complesso che la cultura sanitaria della nostra società non è in grado di gestire pienamente.
Il sistema sanitario è ancora in gran parte basato sulla gestione della malattia e non dell'individuo ammalato. Il medico di base deve spesso gestire un gran numero di pazienti in un tempo molto limitato. Il paziente cosi rischia di essere sottoposto a numerosi accertamenti e visite specialistiche, a volte senza che vi sia una comunicazione fra i vari medici, che non sempre portano ad una risoluzione completa del problema.
Il dolore cronico che si accompagna ad una sensibilizzazione centrale non sempre viene riconosciuto e viene cosi etichettato come MUS (medical unexplained symptoms), ovvero come un sintomo medico apparentemente senza spiegazione. Una review molto esaustiva del 2019 afferma che non ci sono significative differenze fra le definizioni e il modo in cui vengono gestiti i MUS e il dolore cronico nelle pubblicazioni che li riguardano (Boer C. et Al., 2019).
L'Osteopatia, nella definizione più completa della professione, si propone come una terapia olistica e ha il grande vantaggio di considerare l'individuo come un unicum. In quest'ottica, che è peraltro quella che più mi ha affascinato sin dall'inizio dei miei studi, la patologia o lo squilibrio del paziente possono derivare sia da uno squilibrio corporeo sia da uno squilibrio affettivo o emotivo. Mente e corpo sono collegati in senso fisico; gli stati d'ansia e le paure producono reazioni fisiologiche, nervose ed ormonali al pari dei traumi fisici. Pensiamo al meccanismo di “flight or fight”, ben descritto da McEwen nella sua review. Lo stress prevede un sistema di comunicazione a due vie tra il cervello e i vari sistemi, cardiovascolare e immunitario per esempio, tramite meccanismi neurologici ed endocrini (McEwen B., 2007).
L'osteopatia rappresenta in questo senso un eccezionale anello di collegamento tra la medicina “sintomatica”, che rimane indispensabile per la sicurezza e la salute del paziente, e la medicina centrata sul paziente, che considera quest'ultimo come un organismo che è il risultato di tutto il suo vissuto, e il cui stato di salute e malattia è inevitabilmente influenzato dal contesto psico-sociale in cui egli si trova e si è trovato a vivere.
Da un punto di vista più pragmatico l'osteopata può ampliare enormemente il suo campo di applicazione e superare la concezione ormai un po' vetusta di “aggiusta-ossa e “sblocca-schiena” (vetusta ma spesso ancora ben radicata sul territorio) per diventare un anello fondamentale nel panorama sanitario e collaborare alla pari con altre figure specialistiche nella gestione di pazienti affetti da dolori cronici.
L'altra faccia della medaglia prevede, almeno qui in Italia, un quadro normativo che non tutela pienamente l'osteopata come professionista. Dal punto di vista sanitario il ruolo dell'osteopata è ancora poco chiaro e, forse anche per questo, parte della classe medica non la considera una figura valida con cui collaborare. Inoltre, le evidenze scientifiche di efficacia sul dolore cronico sono ancora limitate. Come scrive Licciardone nella sua review che ho già citato in precedenza, i rigidi protocolli previsti dai trial clinici sono difficili da applicare ai trattamenti osteopatici. Di conseguenza le uniche linee guida stabilite dall' American Osteopathic Association sono state redatte per il chronic low back pain con disfunzione somatica (Licciardone et Al., 2020).
Serviranno quindi nuovi studi e ancora del tempo per far si che il trattamento osteopatico diventi una caposaldo nel trattamento dei pazienti con dolore cronico.
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Osteopatia e disturbo psicosomatico - 4 agosto 2020
Nel link sottostante la registrazione della diretta facebook con la Dottoressa Battezzato Sara, psicologa e nutrizionista, con alcuni spunti interessanti sul ruolo dell'Osteopatia nella gestione del disturbo psicosomatico e più in generale sul ruolo che dovrebbe ricoprire all'interno delle scienze mediche.
Comprensione del trattamento osteopatico - luglio 2020
Comprensione del trattamento osteopatico
Capire il trattamento osteopatico significa capire l’equilibrio sul quale si basa il nostro organismo.
L’essere umano è un sistema parzialmente chiuso: possiede infatti una sua autonomia strutturale ma è in costante comunicazione con l’ambiente che lo circonda.
La sua struttura infatti si nutre per il suo funzionamento e per il suo metabolismo cellulare di ossigeno che estrapola dall’aria, e si è evoluta negli anni per sviluppare dei sistemi di protezione che potessero integrarla nell’ambiente circostante.
Ad esempio il sistema immunitario, che ci permette di sopravvivere ai patogeni; oppure il sistema muscolo-scheletrico e propriocettivo, che si adatta momento per momento alla forza di gravità e alle sollecitazioni meccaniche che ci impone il movimento.
Comprendere l’origine di un dolore, di una patologia o di una disfunzione significa conoscere le basi sulle quali si fonda l’equilibrio del nostro corpo e la sua reazione di sopravvivenza ad una causa nociva, sia essa interna oppure ambientale.
Siamo fatti per sopravvivere e per adattarci ad eventuali ostacoli o problemi. Il nostro corpo, sin dalla prima infanzia, mette in atto una serie di aggiustamenti automatici per adattarsi all’ambiente in cui viviamo.
Qui gli esempi si sprecano, una postura scorretta è un adattamento, l’ipertensione arteriosa è un adattamento, l’ipertrofia muscolare è un adattamento.
E’ in questa sede che iniziano i problemi. Talvolta gli adattamenti non portano solo benefici.
Riprendiamo gli esempi visti sopra.
L’ipertensione arteriosa potrebbe dipendere da un’adattamento ad uno stress cronico prolungato che non trova sfogo; non potendo rispondere alle necessità biologiche di attacco e fuga l’aumento della pressione diventa un adattamento cronico invece che transitorio, con notevoli conseguenze sistemiche.
Una scoliosi idiopatica causa delle curve di compenso, la postura viene modificata per mantenere la linea dello sguardo orizzontale e l’equilibrio; questa postura modificata, utile sotto alcuni aspetti, causerà però alcuni effetti collaterali, in primis possibili dolori muscolo scheletrici e limitazioni funzionali.
Da qui nasce la necessità di un’anamnesi dettagliata e della conoscenza di test medici di base che possano indirizzare il problema.
L’osteopata dovrebbe principalmente lavorare sulla para-fisiologia, ovvero sulle condizioni che precedono o che fanno da contorno allo sviluppo e/o alla gestione di una patologia conclamata.
Anche qui è utile un esempio. Un fegato congestionato può andare incontro a steatosi: la steatosi epatica è una condizione medica che deve essere inquadrata appieno e necessita talvolta di una cura farmacologica.
Una volta inquadrata questa condizione l’osteopata può favorire il drenaggio del fegato, agire sul suo sistema di sospensione legamentoso e fasciale e coadiuvare cosi il trattamento medico per permettere una più rapida risoluzione del problema o una migliore gestione di esso nel tempo.
La certezza o anche solo il dubbio di una patologia deve indirizzare ad una valutazione medica. In questo senso il lavoro interdisciplinare o di equipe è quello che da maggiori risultati e che garantisce il rispetto e la sicurezza della persona.
Una volta compreso questo concetto di base cerchiamo di capire alcune basi scientifiche su cui l’osteopata lavora.
Korr e Chaitow, disfunzione somatica e analogie
Irvin M. Korr contribuì in più di 50 anni alla raccolta di prove scientifiche per le cause e gli esiti delle lesioni osteopatiche.
Oggi il termine lesione osteopatica è inesatto, Il ROI (registro osteopati d’Italia) riconosce la disfunzione somatica, ovvero una condizione più completa che prevede la presenza di più fattori (alterazioni tissutali, asimmetria, ridotto range di mobilità, dolorabilità).
Le leggi scoperte da Korr valgono per entrambe le definizioni.
Una disfunzione somatica nella colonna vertebrale porta ad un ipertono della muscolatura paravertebrale intorno al segmento affetto, determina un tono simpatico elevato del segmento, influenza la conduttività dei nervi, abbassa la soglia di stimolo di tutti i recettori che dipendono da questo segmento. Korr coniò i termini segmento facilitato e lente neurologica.
Una disfunzione somatica nella colonna vertebrale causa una soglia di stimolo abbassata in tutti i centri del segmento affetto (segmento facilitato).
A causa della bassa soglia di stimolo dei recettori, il segmento facilitato diventa suscettibile a stimoli più deboli. Quindi gli impulsi cerebrali (emozioni, stress, paura, collera) raggiungono più facilmente la soglia di stimolo di questi segmenti e pertanto scatenano i sintomi più rapidamente. Questa considerazione apre le porte ad un campo sconfinato e per certi versi ancora poco considerato, ovvero il disturbo psicosomatico.
Inoltre gli stimoli che in circostanze normali raggiungono solo segmenti facilitati possono influenzare anche il segmento facilitato.
Abbiamo detto che una disfunzione somatica alza il tono simpatico del segmento facilitato. Questo fenomeno comporta a sua volte altre conseguenze. Sempre Korr dimostrò che il sistema nervoso simpatico influenza l’irritabilità neurale e l’attività cerebrale, inoltre modula il metabolismo e gestisce il sistema endocrino. Va da sé che, se questo stato facilitato persiste per lungo tempo, il problema può diventare cronico. Una disfunzione somatica può causare un’irritazione viscerale o viceversa (altro grosso campo d’azione, quello dei riflessi somato-viscerali e viscero-somatici).
Un altro studioso, Leon Chaitow, descrive un fenomeno molto simile nella genesi dei disturbi miofasciali. Qui di seguito elenco le varie fasi descritte dall’autore:
- Un disturbo funzionale nell’organismo causa una aumento del tono locale muscolare
- Questo aumento porta ad una minore eliminazione dei cataboliti tossici e ad un ridotto rifornimento di ossigeno, che a sua volta porta ad ischemia
- Il tono aumentato può inoltre portare edemi locali
- Questi fattori (cataboliti, ischemia, tumefazione) possono causare tensione e dolore
- Il dolore e la tensione causano e/o aumentano l’ipertono
- Tutto ciò può portare ad un’infiammazione o ad un’irritazione cronica
- L’irritazione cronica causa una facilitazione segmentaria a livello del midollo spinale
- I macrofagi e i fibroblasti sono attivati in seguito all’infiammazione
- La produzione di tessuto connettivo aumenta, causando indurimento e accorciamento
- A causa della continuità delle fasce in altre aree dell’organismo origina una tensione, che influenza la circolazione linfatica e sanguigna
- In conseguenza dei disturbi vascolari appare una fibrosi del tessuto muscolare
- Le modificazioni elencate sopra rendeno più corti i muscoli posturali e più deboli i muscoli fasici
- I muscoli accorciati portano a tensioni dei tendini con dolore nel periostio
- Gli squilibri muscolari influenzano inoltre la coordinazione dei movimenti
- Ne derivano disfunzioni articolari cosi come ulteriori alterazioni fasciali
- La facilitazione segmentaria nel midollo spinale progredisce sempre di più e nei muscoli si formano dei trigger point
- Altri sistemi corporei possono essere colpiti dall’ipertono, ad esempio la funzione respiratoria e la digestione
- A lungo andare l’ipertono, l’accorciamento muscolare e la facilitazione neurale causano un aumento del tono simpatico e un feedback negativo sul sistema nervoso. Ne derivano inquietudine e irritabilità
- Ciò apre la porta a patologie acute; i dolori associati a questo processo sono spiegati dal rilascio di ormoni tissutali (bradichinina, istamina, serotonina, prostaglandine).
Sono evidenti le connessioni tra i problemi descritti da Korr e la cascata di eventi descritta da Chaitow. Pur non facendo riferimento a tempistiche precise entrambi evidenziano come una disfunzione somatica posso coinvolgere il sistema nervoso autonomo, alterando il tono simpatico e predisponendo l’organismo a infiammazione e dolori, e predisponendolo a suscettibilità e debolezze future.
Rientra appieno in questo contesto anche il discorso della parafisiologia introdotto prima; l’osteopata non deve intervenire solo nella gestione di patologie già conclamate, ma può e deve intervenire prima che si sviluppi la patologia, agendo quindi in prevenzione.
Le fasce e il tessuto connettivo
Uno dei punti di forza della pratica osteopatica rispetto ad altre figure specialistiche dovrebbe essere la comprensione del tessuto connettivo e delle fasce. Su questo argomento sono stati scritti libri e tomi; mi limito quindi alla descrizione di ciò che è funzionale per il mio discorso.
Il tessuto connettivo di sostegno, cosi come gli altri tessuti del nostro organismo, è in continuo seppur lento rinnovamento.
Questo rinnovamento segue delle direzioni, ed è influenzato da una serie di fattori.
Scompensi posturali possono causare un inspessimento di questo tessuto, pensiamo per esempio ad una curva scoliotica, dove da un lato del rachide la muscolatura e il suo rivestimento (per l’appunto di origine connettivale) sono accorciati e di maggior spessore, mentre dall’altro lato sono indeboliti e allungati.
Fortunatamente il terapista ha diverse metodiche per influenzare la “direzione” del rinnovamento cellulare fasciale. Il metodo più conosciuto e a volte sottovalutato è lo stretching, poi ovviamente ci sono tutte le tecniche manuali.
Uno dei fattori determinanti nell’applicazione delle varie tecniche è la pressione.
In fisica le forza compressive e tensive svolgono un ruolo determinante. Lo stesso vale nella fisiologia umana, il metabolismo cellulare dipende da condizioni di pressione (vedi la formazione di artriti, la vascolarizzazione dei dischi intervertebrali e della cartilagine).
Mettiamo ora assieme i vari pezzi:
- Le disfunzioni somatiche causano ipertono della muscolatura e possibile ipertono del sistema simpatico;
- Le disfunzioni somatiche sono spesso mantenute da squilibri nel sistema muscolo scheletrico;
- Il sistema muscolo scheletrico è avvolto, vascolarizzato e sostenuto dal sistema connettivale e fasciale;
- L’osteopata è in grado di influenzare mediante diverse metodiche il tono muscolare ed il sistema fasciale.
Ecco a mio avviso uno dei dei cardini sui quali si basa l’efficacia del trattamento osteopatico.
Non scordiamo di considerare che il tessuto connettivo e fasciale è presente in tutto l’organismo. L’osteopata francese Leopold Busquet, tra le sue numerose pubblicazioni, scrisse anche un libro dove descriveva le connessioni viscerali degli organi addominali con il tronco tramite il sistema di sospensione (mesenteri, legamenti e omenti) e il peritoneo.
Il sistema viscerale viene così ad avere una doppia influenza sull’omeostasi dell’organismo.
Da una parte abbiamo l’innervazione, i neuroni ortosimpatici responsabili dell’innervazione viscerale si trovano infatti nella colonna laterale del midollo spinale tra T1 ed L2 (da qui la formazione dei riflessi somato-viscerali e viscero-somatici).
Dall’altra parte abbiamo una correlazione meccanica tramite le fasce e il sistema di sospensione.
L’osteopata può interagire ad entrambi i livelli. I sistemi sono cosi interconnessi che il lavoro su uno dei due spesso influenza anche l’altro.
Aggiungo una nota per quanto riguarda le tecniche ad altà velocità e bassa ampiezza. Recenti studi hanno messo in evidenza che, sebbene il meccanismo di funzionamento alla base delle tecniche manipolative HVLA rimanga per certi versi elusivo, la modulazione della risposta neurologica sembra giocare un ruolo chiave.
Non è affatto diverso da quello che abbiamo visto prima nei lavori di Korr e Chaitow: la risoluzione di una disfunzione somatica non agisce solo a livello meccanico, bensì contribuisce a ridurre il tono simpatico dominante conseguente ad un ipertono e ad una sensibilizzazione muscolare.
Osteopatia Cranica
Tenendo bene a mente i concetti espressi sinora volevo spendere qualche parola in merito al trattamento cranio-sacrale.
Durante i miei studi e nei colloqui e scambi di idee con i miei colleghi, compagni e docenti ho riscontrato che la metodica di trattamento craniale è la branca dell’osteopatia che sicuramente suscita più dubbi e perplessità.
La medicina occidentale tradizionale, la nostra medicina, che a volte viene chiamata in gergo “allopatica” (faccio notare che a me il termine non piace perché ha un accento negativo), prevede che nel cranio dell’uomo adulto le suture craniche siano saldate.
L’osteopatia cranica descrive invece un movimento, seppur nell’ordine di pochi millimetri, delle ossa craniche intorno alle linee di sutura anche nell’età adulta.
Ci sono diversi fattori che contrastano con un riconoscimento da parte della società medica moderna di questa forma di terapia.
Vediamone alcuni:
- L’osteopatia basa una buona parte della sua efficacia sulla sensibilità palpatoria. Questa abilità si affina in anni di pratica e studio, è difficilmente misurabile in termini matematici ed è differente da operatore a operatore.
- Molti osteopati di grande bravura non sono stati in grado di trasferire le loro conoscenze e abilità agli studenti; così facendo la loro capacità veniva ritenuta solo un talento naturale e questi personaggi venivano assimilati a maghi o stregoni piuttosto che a terapisti validati scientificamente.
- La difficoltà di misurare e rendere scientifico questo approccio ha prodotto evidenze incerte, che la comunità medica non può accettare
- La natura di questo trattamento si presta molto alla pochezza di cialtroni e ciarlatani. Persone convinte di fare terapia quando magari sono incapaci e ottengono al massimo un effetto placebo, oppure persone consapevoli che il loro tocco non ha efficacia, ma pronti a sfruttare la debolezza delle persone bisognose per arricchirsi, screditando però cosi tutta la categoria.
Fatte queste premesse dobbiamo però dire a onor del vero che la terapia cranica o cranio-sacrale sta lentamente venendo riconosciuta come utile nel trattamento dei neonati. Ovviamente l’anatomia del neonato o del bimbo, in cui le suture non sono saldate e il cranio è in via di accrescimento si presta particolarmente ad una manipolazione delle ossa craniche.
Differente è appunto il discorso per l’uomo adulto.
Nonostante le differenti concezioni tra “medicina osteopatica” e medicina tradizionale occidentale in ambito cranico, non dobbiamo dimenticare che l’aspetto manipolativo osseo non è l’unico ad essere importante. A livello cranico, cosi come nel resto del corpo, esistono fasce, aponeurosi e tessuti di rivestimento che sono vivi ed in continuo rinnovamento cellulare.
Abbiamo spiegato sopra come il lavoro sul tessuto connettivo possa essere di grande utilità nel ripristino dell’omeostasi corporea. Al buon funzionamento del tessuto connettivo si associa un miglioramento della circolazione sanguigna . A questo punto, a mio modestissimo avviso, poco importa se un appoggio delle mani sull’osso occipitale apporti un beneficio perché il bravo terapista riesce con una palpazione profonda a detendere le membrane a tensione reciproca intracraniche (come viene insegnato in molte scuole osteopatiche) oppure se apporti beneficio perché provoca un’inibizione sull’aponeurosi del muscolo trapezio, che è direttamente connessa alla muscolatura cervicale.
La cosa importante è l’umiltà nel lavoro e la comunicazione diretta con il paziente.
Come ho già detto prima l’osteopatia non può essere medicina indipendente, cosi come a onor del vero nessuna medicina dovrebbe essere totalmente indipendente.
Una volta esclusi problemi medici e dopo aver consultato i giusti medici specialisti, in assenza di controindicazioni, ogni terapia può essere applicata purchè con uno scopo benefico e con un ragionamento logico, nel rispetto della comunicazione con il proprio paziente.
Come in molti aspetti della vita, il giusto risiede nel mezzo.
E’ sacrosanto punire chi, mettendo a rischio la salute del prossimo, si pone come guaritore o sciamano, ma è altrettanto giusto permettere ad un professionista di lavorare senza pregiudizi.
La scienza avanza sempre e non è detto che, poco alla volta, verranno spiegati gli esatti meccanismi fisiologici di funzionamento di tutte le tecniche osteopatiche.
Non dimentichiamo che siamo stati messi in scacco per mesi da un’entità invisibile; poche centinaia di anni fa la colpa sarebbe stata di qualche dio vendicativo.
Osteopatia e sviluppo sostenibile
La pratica osteopatica si pone per certi versi in contrapposizione con la scienza medica moderna.
Numerosi fattori, tra i quali i grandi numeri e un sistema sanitario non sempre all’altezza , hanno modificato negli ultimi decenni il rapporto tra paziente e medico di base.
Spesso alla classica visita si sostituisce una veloce prescrizione di un farmaco o di un esame strumentale di accertamento. Il paziente così diventa un numero e rischia di venire sballottato da uno specialista all’altro. Il rapporto umano, la raccolta anamnestica dei dati, l’auscultazione cardiaca e polmonare, la palpazione addominale, tutte queste pratiche che permettono di inquadrare il paziente a 360 gradi e di individuarlo come un unicum, dotato di una propria e personalissima situazione clinica, passano così in secondo piano.
Tengo a precisare che la mia non si pone assolutamente come una critica verso la classe medica. Ci si adatta per sopravvivere. Per un medico di base che si trova a dover gestire un numero cosi alto di pazienti spesso è impensabile poter dedicare più di un tot di tempo a ciascuno, pena l’impossibilità di dare assistenza a tutti.
In quest’ottica l’osteopata si potrebbe inserire come strumento di aiuto e integrazione. Alla base della pratica osteopatica troviamo tutte quelle operazioni descritte sopra che a volte i medici non possono eseguire per mancanza di tempi e spazi adeguati.
Un’anamnesi dettagliata, una valutazione posturale, una visita manuale a cui ormai pochi specialisti si affidano: questi sono tutti potenti strumenti in mano all’osteopata, il cui compito non dovrebbe essere quello di fare diagnosi, bensì di inquadrare la persona nella sua totalità. Il concetto è molto sottile ma per niente scontato. L’osteopata non deve trattare una spalla dolente, ma deve trattare “Marco”, a cui fa male la spalla.
Come ho già scritto nei paragrafi precedenti la collaborazione fra le varie figure specialistiche è quella che può fare la differenza.
Aggiungo un altro punto per me fondamentale, l’abuso di farmaci.
La società di oggi, sempre più frenetica, non ci permette di rispettare i ritmi biologici del nostro organismo.
La vita viene organizzata in base alle scadenze, alle pratiche , ai progetti, in base agli orari e ai turni di lavoro; non ci si può permettere di stare a casa quando stanchi o malati. Cosi, se si ha mal di testa o un po’ di febbre si prende una medicina, spesso senza neppure consultare il medico o ancora peggio consultando google, e si va comunque a lavorare. Il fisico viene sottoposto a uno stress cronico che lo indebolisce negli anni e magari lo predispone a patologie più severe.
Quasi nessuno considera il fatto che, nonostante l’innovazione tecnologica faccia ogni giorno passi da gigante, la nostra struttura biologica è quasi la stessa di migliaia e migliaia di anni fa e risponde ai ritmi circadiani, alle stagioni, a segnali chimici primordiali di sopravvivenza. Abbiamo già accennato sopra a uno dei meccanismi di sviluppo dell’ipertensione arteriosa, lo stress cronico. Pressione sanguigna in aumento, battito accelerato, sudore alle mani, chiusura dei sistemi digestivi; sono tutti adattamenti transitori, utili per combattere o per scappare, ma deleteri in un ambiente d’ufficio opprimente e causa di intossicazione cronica per il nostro organismo.
La pratica osteopatica può avere in questo senso molti campi d’azione:
- Consapevolizzazione del paziente. L’osteopata conosce i meccanismi alla base di molte reazioni corporee e può indirizzare verso una maggiore consapevolezza del proprio corpo e dei suoi sistemi di difesa.
- Riduzione nell’utilizzo di farmaci. Il controllo e la gestione del dolore è uno degli obiettivi del trattamento osteopatico.
- Recupero della dimensione umana. Il paziente torna ad essere al centro dell’attenzione e non viene confuso con la sua patologia.
Ecco allora che l’osteopata può diventare un importante mezzo di collegamento tra passato e futuro, tra fisiologia e biologia umana e tecnologia, un aiuto per capire come il nostro organismo può gestirsi e integrarsi al meglio nella società moderna e nel futuro.